Geografie dell'emozione con contrappunti fatali

Geografie dell‘emozione con contrappunti fatali Involontariamente politica, intenzionalmente policentrica: questi i caratteri della Biennale, che ieri ha inaugurato la sua cinquantaduesima edizione, secondo il curatore Robert Storr. Che ha più volte respinto il cinismo di chi paragona la kermesse veneziana, teatro di esperienze non monetizzabili, al mercato delle Fiere Arianna Di Genova

Il viaggio in Laguna parte sotto un cielo plumbeo e un‘afa che quasi spezza il respiro. Ma tutti lo sanno da tempo: a Venezia l‘arte «pesa» come un macigno. Lo dimostra anche il trittico di cataloghi (Marsilio) che l‘edizione 2007 della Biennale mette a disposizione del visitatore. Gli esperti del vernissage conoscono un trucco che applicano da anni: fare il giro dei padiglioni nazionali ai Giardini (questa volta c‘è una sorpresa, una pioggia di magliette di ogni colore, gadget globalizzato, dalla Russia all‘Africa) per farsi regalare le loro borse in tela; la caccia a questo bene di lusso è feroce, perché dopo neanche due ore di sbarco alla kermesse il flâneur dell‘arte si ritrova con circa dieci chili di libri da trascinarsi dietro. Anche in questo giugno sonnacchioso e incerto, la polemica che inevitabilmente accompagna ogni Biennale si affaccia inesorabile: è indiretta e colpisce il cosiddetto padiglione africano e la mostra Check List, ovvero il fiore all‘occhiello del direttore Robert Storr, che nei mesi scorsi aveva lanciato un concorso per affidare l‘immagine degli artisti africani a curatori che avessero un progetto convincente e affrontassero i nodi dell‘Africa contemporanea. Il puzzle del continente nero I vincitori sono arrivati e sono di tutto rispetto (dall‘Angola Fernando Alvim, e dal Camerun Simon Njami) come gli artisti che espongono (molti dei quali presenti già nell‘itinerante Africa Remix); ma non così il collezionista di Luanda da cui provengono le opere, Sindika Dokolo, il cui padre avrebbe dato vita alla banca di Kinshasa, speculando sulla rovina del Congo e fondando la sua fortuna in maniera non proprio trasparente, fra intrecci politici e traffici illeciti. Gli artisti, tuttavia, sono innocenti e di fatto, in un puzzle africano dove non ha alcun senso interrogarsi sulle dinamiche fra centro e periferie - spiega Simon Njami - raccontano frammenti di un mondo che a volte è costretto a abdicare a se stesso. Qualcuno lo fa con ironia e produce il cortocircuito vitale della metamorfosi ormai avvenute: una per tutte, Zoulikha Bouabdellah che sceglie semplicemente la sua pancia da inquadrare (nel video di Dansons, 2003). Balla la danza del ventre, avvolta in un pareo con la bandiera francese e il sottofondo è la Marsigliese. L‘inno francese va molto quest‘anno a Venezia: l‘uso più inedito l‘ha regalato, ai Giardini, il norvegese Lars Ramberg. Ha installato davanti al padiglione nordico, disegnato da Alvar Aalto, tre toilette chimiche, rossa bianca e blu, con le scritte «liberté, egalité, fraternité» e un ambiguo cartello per invitare maschi e femmine a condividere lo stesso servizio. Dentro risuonano le note della Marsigliese. Risultato, dopo nemmeno un‘ora dall‘apertura della vernice, molti le avevano usate realmente, nonostante non si chiudessero le porte, facendo disperare gli addetti al padiglione. Che però potevano rilassarsi all‘interno, grazie a Jacob Dahlgren, al quale si deve il montaggio a parete di centinaia di tirassegni. Per il resto, i Giardini, con le partecipazioni nazionali, confermano le previsioni della vigilia. La Francia sbanca l‘immaginario con Sophie Calle (curatore Daniel Buren, sponsor Chanel) e il suo Abbia cura di sé, cento e più interpretazioni di una lettera di rottura affidate da donne di estrazione diversa e di differente background. C‘è chi canta, chi piange, chi ride, chi legge la missiva, chi la strappa ma poi, in un numero di prestidigitazione, la fa tornare intera, chi (la giocatrice di scacchi) vede tutto come una partita e cerca strategie alternative. Ci sono la nostra Luciana Littizzetto che viene colta di sorpresa dall‘addio mentre pela prosaicamente le cipolle in cucina, e la giornalista Florence Aubernas che invita all‘archiviazione di una «lettera da pattumiera» perché non nasconde nessun delitto, dunque risulta ininfluente per la sete macabra dei media. Compare, fra le interpreti, anche Monique, la madre dell‘artista che esorta la figlia a non essere triste e ad applicare il famoso «chiodo scaccia chiodo». Lei, la signora Monique, la ritroveremo poco dopo dentro il padiglione Italia ai Giardini, nel percorso che fa parte della mostra allestita da Storr, Pensa con i sensi, senti con la mente. Sophie Calle, invitata anche qui, ha reso omaggio alla madre morta prima dell‘evento veneziano. E lo ha fatto a modo suo, con una registrazione diaristica degli ultimi desideri (vedere il mare, il pedicure, la scelta dell‘epitaffio, la musica) e l‘ultimo sorriso, fino a presentarla ai visitatori in un video, nei minuti finali della sua esistenza, e poi morta e serena. Ci si sente come intrusi a un capezzale affettivo, ma qui l‘assunto di Storr - _ guardare facendo appello anche ai sentimenti - è pienamente raggiunto. Non è soltanto Sophie Calle a essere così autobiografica nelle sue affabulazioni. La «vicina di casa» Tracey Emin, tailleur bianco e in vista il reggiseno nero ricamato, al padiglione inglese propone Borrowed Light, un album di schizzi molto intimo che trasuda tutta l‘angoscia di una biografia difficile come quella vissuta dall‘artista, nata a Londra (1963), padre turco-cipriota, madre inglese abbandonata dal marito e una infanzia di povertà assoluta, che la condurrà verso orge a base di sesso e alcool, fino alla «resurrezione» grazie allo studio e all‘arte. Nulla è taciuto, qui, dagli aborti ai pensieri osceni; ma tutto viene «cucito» insieme con grande leggerezza. La scorsa edizione il Leone d‘oro andò alla francese Annette Messager e quindi immaginiamo che in ottobre, quando sarà annunciato, ci si dovrà orientare altrove, escludendo il magnifico mosaico di geografie emozionali di Sophie Calle. Noi, per il padiglione nazionale impalmiamo l‘olandese Aernout Mik, con la sua installazione Citizens and Subjects. In un container, scatola cubica asfittica che trasforma lo spazio architettonico in un centro di accoglienza per profughi, simultaneamente vanno in onda scene di ordinaria paura, con polizia e controlli a tappeto. Vengono svelate le tecniche di addestramento delle forze dell‘ordine che porteranno a distinguere fra due categorie: i cittadini (provvisti di diritti seppure immersi in una modernità liquida che vaporizza le loro certezze) e i soggetti (coloro che sono «altri», minacce dell‘ordine costituito, individui perennemente illegali). La metafora è stringente: davvero il mondo è così binario? Per affrontare il tema, al posto del tradizionale catalogo, il padiglione olandese fornisce un‘antologia critica di scienziati, scrittori e artisti che analizzano la sfida della globalizzazione. L‘attualità di un pianeta allo sbaraglio torna prepotente anche nella mostra di Storr, nelle sue biforcazioni, all‘Arsenale e al padiglione Italia dei Giardini. Il direttore americano aveva detto che la politica non doveva essere uno show e un valore aggiunto delle opere; di fatto, molti artisti non riescono a tacere. Forse lui preferisce i grandi della pittura concettuale e minimalista, da Ryman a Ellsworth Kelly fino a Sol Lewitt - che in verità danno il tono complessivo alla sua esposizione - ma il contrappunto, il richiamo all‘attualità degli altri, è un filo spinato, anzi un recinto, come dimostra l‘agerino Abdel Abdessemed. In una poetica e splendida installazione, Emily Jacir, palestinese nata a Amman (vive e lavora fra New York e Ramallah), racconta i momenti salienti della vita di Wael Zuaiter, intellettuale e giornalista ucciso a Roma da dodici proiettili, nel 1972, come rappresaglia degli agenti israeliani dopo i fatti di Monaco alle olimpiadi. Emily Jacir costruisce un «memorial» con lettere, fotografie famigliari, testimonianze e voci di persone che lo conobbero, tramite interviste raccolte dalla compagna di Wael, Janet Venn-Brown. Il progetto dell‘artista è un film e quelli presentati sono materiali sparsi, frammenti che cercano di mettere insieme una identità complessa: il documentario doveva essere girato da Elio Petri che però morì prima di iniziare le riprese. Sacrari del mondo attuale Memoria, memorial, ricognizione del presente con una mappa dei «caduti» in guerre inutili sono parole che tornano spesso nella mostra della Biennale. Emily Prince (Usa, classe 1981) fornisce una cartina dell‘America fatta con fototessere (disegnate a mano) di uomini e donne morte in Iraq. Totale, tremilacinquecentocinquantasei immagini di volti anonimi. Un sacrario contemporaneo è anche quello che propone il colombiano Oscar Muñoz: un video dove si dipingono visi e identità come epitaffi che poi scompaiono lentamente, a testimoniare l‘impossibilità di un monumento all‘umanità sacrificata. Poco oltre, un bambino gioca a palla con un teschio: è il video di Paolo Canevari, Bouncing Skull, 2007. Siamo nell‘ex quartiere generale dell‘esercito serbo a Belgrado, bombardato dalla Nato nel 1999. Il ragazzo gioca fra macerie che potrebbero essere ovunque, da Kabul a Beirut fino a Baghdad. L‘atmosfera si fa pesante. Le «emozioni» chiamate in campo da Storr si tingono di nero. Sono tanti i teschi che si incontrano nel percorso espositivo. Troppi. A riportare la brevità della nostra vita alla sua naturalezza, al suo corso biologico, pensa il cinese Yang Zhenzhong: I will die è una maxi installazione composta da dieci video dove gente di età, cultura e estrazione sociale diversa recita «Morirò». Molti, soprattutto i bambini, ridono: per loro la morte dovrebbe essere lontana anni luce.


 
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