Tutti i colori della Biennale

Ricorrente omaggio all’arte d’avanguardia, anche quest’anno i cessi non mancano ai Giardini di Venezia per la vernice della Biennale numero 52 (aperta al pubblico dal 10 giugno). Arte della provocazione e provocazione dell’arte: quei tre vespasiani unisex modello JCDecaux, colorati di rosso, di bianco e di blu, e contraddistinti dalle parole «Liberté, Fraternité, Égalité», potrebbero dare origine a un fraintendimento diplomatico di proporzioni continentali, dato che il padiglione della Francia confina con la Norvegia nella topografia della Biennale. Certo i norvegesi possono ricordare che il primo sanitario della storia dell’arte era una trovata francese, il pisciatoio di ceramica trasformato dalla semplice firma di Marcel Duchamp nel primo capolavoro della modernità. Ma rimane il fatto che la provocazione di Lars Ramberg mal si concilia con l’idea di nuovo ordine su cui il direttore americano Robert Storr ha costruito la sua Biennale. «Pensa coi sensi/ senti con la mente»: sembra strappato da una poesia di Giorgio Caproni o Eugenio Montale il titolo della mostra guida. Ma nel percorso che dai Giardini va alle Corderie si vede subito che Storr ha lanciato una sfida alle Biennali precedenti. Come dicono gli addetti ai lavori, quest’anno c’è molta parete: per dire che l’arte viene di nuovo appesa al muro, cioè che si riparte dall’oggetto invece che dall’idea, dalla cosa prima che dal concetto, dal fare invece che dal dire. Gli indizi sono tanti, non sempre lampanti ma spesso celati dietro un compassato understatement filosofico. Per dire: la scelta di esporre le nove immagini a colori, che raccontano Beirut 1991, uniche per un fotografo artista del bianco e nero come Gabriele Basilico, si lega a un’idea della raffigurazione contemporanea che ritroviamo nella scelta di assegnare il Leone d’oro alla carriera all’africano Malick Sidibè, il grande fotografo nato a Soloba nel Mali e che ancora lavora nel piccolo ufficio nella strada più trafficata della capitale Bamako. Altro segnale simpatetico: le quattro straordinarie grandi tele dipinte da Gerhard Richter in omaggio alla musica di John Cage hanno il tono di voler documentare la persistenza della pittura anche al tempo dell’avanguardia radicale. Nello star system dell’arte di oggi, i colori del tedesco nato all’Est, Richter è di Dresda, emanano un’aura estetica del tutto alternativa ai vitellini squartati e congelati di Damien Hirst come alle pregiatissime trovate di Maurizio Cattelan. E Richter costa anche di più, almeno 4 milioni di euro. Così funzionano come spie di un nuovo clima culturale i colori elettrici che ritroviamo nel trash domestico di Jason Rhoades, l’artista californiano morto lo scorso anno di cui sarà difficile dimenticare l’impareggiabile installazione dei «550 nomi di vagina» scritti col neon. E si ritrova ancora tanta pittura, nel senso materiale della cosa, nelle coloratissime favelas dei brasiliani del Morrinho Group, nelle lenzuolate colorate costruite dal ghanese El Anatsui. Sofisticato è il ragionamento sulla pittura che ha spinto Robert Storr a scegliere il gruppo italiano di Alterazioni Video, cinque giovani artisti (Paololuca Barbieri, Andrea Masu, Alberto Caffarelli, Giacomo Porfiri, Matteo Erenbourg) che vivono fra New York, Milano e Shanghai. Per quattro anni hanno fotografato le mura esterne del carcere di San Vittore: ne è venuto fuori un video intitolato proprio Paintings in cui si legge la guerriglia dipinta fra chi scrive e chi cancella. Non hanno ancora letto la poesia di Bertolt Brecht, Viva Lenin, sulla ottusità delle cancellature poliziesche, ma potrebbe essere il loro manifesto culturale e politico. La polemica sugli italiani è già cominciata: ma Giuseppe Penone e Anselmo, Paolo Canevari e Tatiana Trouvè e Angelo Filomeno, il premio a Nico Vascellari e l’omaggio a Emilio Vedova bene rispondono al provincialismo nazionale. Le prime violente reprimende contro Storr sono venute dallo star system della critica mediatica: Philippe Daverio, non senza intelligenza, intervistato da Panorama ha vaticinato che sarà la più brutta Biennale di tutti i tempi. Vittorio Sgarbi ha lanciato la sfida alla Biennale «struttura malata ormai defunta». Sbagliano entrambi. Dovrebbe piacergli questo «ritorno all’ordine». Politicamente corretto il curatore americano, autore di un libro ititolato Modern Art Despite Modernism (pressappoco: arte moderna a dispetto del modernismo), sorride ma nega ogni corrispondenza segreta con il celebre «Rappel à l’ordre» lanciato da Jean Cocteau nel 1926. Ma tutti cercano di entrare in sintonia col nuovo clima dell’arte moderna al tempo della globalizzazione. Al Pac di Milano Sgarbi ha lanciato la sfida con la grande mostra di un archipittore come Luigi Serafini. Con una scelta senza precedenti, al Guggenheim di Venezia hanno smontato la storica collezione di Peggy, per ospitare, in perfetta sovrapposizione con la Biennale, un dialogo al limite dell’estetica fra Matthew Barney e Joseph Beuys. Sequence (1) di Palazzo Grassi espone una quasi antibiennale con le opere della collezione di François Pinault, molte appena comprate: dai coloratissimi plexiglas astratti di Kristin Baker ai neon di Anselm Reyle, oppure alle sculture di Franz West che si trovano quasi uguali alle Corderie, ma un po’ più grandi. Così come non si può fare a meno di confrontare l’albero di ritratti dello svizzero Urs Fischer intitolato Jet Set Lady con Democrazy di Francesco Vezzoli. Storr conclude: «Anche la pittura è concettuale, no? Per la Biennale 2007 non ho guardato al passato. Ma nemmeno al futuro. Ho cercato di vedere il presente».


 
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